E’ maggio 2013, Alfredo mi telefona, mi chiede di incontrarlo, <perché ti devo parlare: tu sei stato corridore sino a poco tempo fa e sai scrivere bene, voglio trasmettere un messaggio ai giovani, dobbiamo fare insieme una sorta di testamento sportivo di Alfredo>. Ci ridemmo sopra, Alfredo era solito alla battuta. Ma una settimana dopo veniva ricoverato in ospedale. Lui sapeva già…
<Bisogna riconoscere ai giovani, soprattutto oggi il diritto a non vincere>. Alfredo va subito diritto al cuore della questione, nel suo studio in penombra, tra i quadri di Prodi che pedala, il povero Franco Ballerini che lo abbraccia, le agende rosse con le quali da anni appunta ordini d’arrivo, impressioni, sensazioni su corse, uomini, i protagonisti dello sport. <Questa è una società veloce, schiacciasassi, spesso schiaccia-emozioni: se non sei vincente, se non sei forte, sembra che non conti nulla. Ma io dico invece che si può vincere anche senza arrivare primi, basta averci messo tutto>. Alfredo ci aveva lanciato la proposta, sussurrata tra i denti ma si vedeva che ci teneva tanto a tornare sull’argomento, quello dei giovani, quello di dare loro una speranza e un futuro nel ciclismo, al di là dell’essere campioni o meno, <perché comunque il ciclismo ti rende uomo, ti fa crescere nella personalità. Il ciclismo è verità: ti fa scoprire i difetti che hai>. Suona male dire che Alfredo vuol lasciare un testamento, il suo testamento ai giovani del ciclismo, ma di fatto si è preparato, come al solito, al nostro incontro riflettendo a fondo sui temi fondamentali della vita, più che ancora solo in quelli del ciclismo pedalato, Alfredo parla di ciclismo vissuto, lui che a 92 anni di ciclismo ne ha visto e tanta parte ne ha costruito, plasmato coi suoi pedali prima, col suo carisma poi.
Alfredo Martini con Gino Bartali e Franco Ballerini Non è vero che si va indietro, si va avanti <E’ sbagliato essere pessimisti, dire che il ciclismo perde praticanti, giovani sulle strade. Era il 1938, avevo 17 anni ed ero già un bravo dilettante, anzi ero il campione toscano dei dilettanti. Correvo con il Gruppo Rionale Fascista Menaboni di Firenze, e ci portarono a correre a Cicogna di Arezzo, giù in Valdarno, dove vinsi la corsa in volata. Siccome ero bravino, mi portarono a correre in auto, una di quelle poche che c’erano e che oggi vengono restaurate e usate nei cortei storici di auto d’epoca. Ma per noi era tutto ciò che di più si potesse desiderare. Gruppi sportivi ce n’erano pochi, a differenza di oggi che di società sportive ciclistiche ve ne sono tantissime. Ai tempi del fascio era così perché il fascismo temeva le società, gli assembramenti di persone non controllati. Al via eravamo 35-40 ragazzi, non di più: oggi, nonostante il pessimismo dilagante, ne parte almeno il doppio, spesso quattro volte tanto. Voglio dire che è giusto fare considerazioni generali sullo stato del ciclismo, che certamente si potrebbe fare di meglio, ma non è vero che si va indietro, piuttosto il mondo va in avanti>. La bici ti dà fatica ma te la toglie anche… <E’ per questo che dico che al di là di tutto, chi pratica ciclismo, i giovani che decidono oggi di intraprendere questa strada così in salita, ricca di sacrifici e spesso avara di soddisfazioni, questi giovani d’oggi hanno una marcia in più rispetto ai propri coetanei. La bici ti dà fatica, ma se sei ben preparato te la toglie anche. E’ per questo che a me piacerebbe tanto che i ragazzi in gara si ritirassero il meno possibile: perché comunque val la pena arrivare sino in fondo, anche stanchi e battuti, anche delusi dal risultato dell’oggi, ma speranzosi di rifarsi un domani. Questo anche perché la gente, i tifosi che stanno a bordo strada sono vicini alla fatica dei corridori, pare che vogliano spartirla con loro stessi. La fatica non è mai sconcia, non va mai nascosta come una cosa disdicevole. Lì davanti vi è sempre uno solo che vince e che magari per via dell’adrenalina, della gioia della vittoria pare che non senta e non stia facendo fatica. Ma per uno che vince, una corsa di bicicletta è fatta di tanti altri che fanno fatica, raggiungono il traguardo e il loro sacrificio di giungere sino all’arrivo anche se battuti, è il miglior tributo allo sport, la riconoscenza verso la vittoria del tuo avversari. Alfredo Martini al Tour de France Il pubblico sulle strade si immedesima nella fatica dei corridori <E’ per questo che la gente attende ansiosa ancor oggi, oggi più di prima al bordo della strada, perché vuol battere le mani ai suoi ragazzi che sono d’esempio. Qualche mese fa ero in auto durante la tappa del Giro d’Italia che partendo da San Sepolcro ha raggiunto Firenze, con l’arrivo posizionato su Piazzale Michelangelo. A bordo dell’auto ho percorso più di 170 chilometri, tutti sotto una fitta pioggia e la gente lì a bordo strada ferma, sotto ombrelli o ripari di fortuna ad attendere i corridori. Passando per le strade ho fatto tante considerazioni. Mi facevano compassione quelle famiglie con i bambini zuppi d’acqua, ma non si muovevano da lì per attendere i corridori e mi son detto più volte <ma come fanno?>. Ecco, questo è un patrimonio del ciclismo che va rispettato a fondo, questa è la nostra ricchezza, il motivo per cui dobbiamo andare avanti con coraggio e pulizia. Noi con questo pubblico dobbiamo scusarci, ogni volta che li tradiamo, dobbiamo chiedergli scusa. E dobbiamo chiedergli scusa anche quando gli proponiamo corse spente, senza cuore, senza attacchi coraggiosi. Ma io ho fiducia in questa nuova generazione di corridori, gli italiani in prima fila. Alfredo Martini al Giro d’Italia del 2013 con il giovane svedese Thomas Lovkvist Vedi un Nibali che non si risparmia mai, attacca in maglia rosa, per raggiungere le Tre Cime di Lavaredo in testa alla corsa si sottopone ad uno sforzo sovrumano: questo è il ciclismo che saprà risorgere (anche qui Alfredo fu preveggente… Ndr). Vedo questo nelle nuove generazioni: uno spirito aggressivo, meno ragionato, corse più combattute e non solo il Giro d’Italia. Questo è il ciclismo che saprà continuare a conquistare il cuore dei tifosi. E poi se il Times di Londra arriva ad interessarsi in prima pagina del ciclismo, qualcosa vorrà pur dire. Gli inglesi hanno scritto che il ciclismo dà qualcosa di più all’uomo moderno, salva la salute del pianeta e quella dell’uomo per tornare a portarlo, in bici, nei centri storici>. I giovani, Alfredo ha i giovani a cuore. Giovane è il suo interlocutore, Alfredo mentre ti parla è attento al tuo grado di attenzione, vuole che nessuna delle sue parole ti giungano stanche, così si ferma un attimo e va in cucina per preparare un caffè. Con la moka, come quelli di una volta, un caffè forte e un cucchiaino di zucchero. Cucchiaino piccolo e d’argento. Ti squadra negli occhi, vuol capire se ami come lui il ciclismo, ti chiede come stai, cosa fanno i tuoi bimbi a casa. Alfredo ti entra dentro, non stai interloquendo con una persona di fianco a te, piuttosto stai parlando con una persona che sa penetrarti. Questa non è un intervista, Alfredo ti guida nel taccuino, aspetta che tu finisca di scrivere e poi riparte. Insegnare a giovani a credere ciò in cui si è impegnati <Ai giovani oggi bisogna insegnare a credere profondamente in quello che hanno scelto di fare: è questo il compito principale dei direttori sportivi delle categorie giovanili di oggi. Bisogna prima di tutto cercare di capire chi hai di fronte: un ragazzo ti ascolta se chi gli parla si dimostra sapiente, se gli sa prospettare il futuro, che è parente del passato. A questi ragazzi bisogna sapergli insegnare la speranza, che è la luce. La speranza è la benzina dei poveri. E di speranza oggi soprattutto i giovani si debbono nutrire, perché oggigiorno non è facile fare il ciclista.
Fare il ciclista oggi è più difficile Quando io a 17 anni andavo in macchina a Cicogna a correre, i miei fratelli li lasciavo nel campo a lavorare. Io partivo in auto alle 7 e loro era dalle 4.30 che stavano con la schiena ricurva a lavorare di zappa. Poi quando io rientravo, loro erano ancora lì. Non è che sempre si partisse in auto per le corse, magari spesso ci spostavamo con la bici prima delle corse, ma era pur sempre un privilegio fare il corridore. Ti dicevano che per pedalare forte dovevi mangiare il giusto, andare a letto presto e svegliarti all’alba. Bene: noi in casa non avevamo la corrente elettrica e la sera alle sette e mezza cenavi quel poco che si poteva mettere a tavola, poi tutti a letto. Ovvio che la mattina dopo alle cinque e mezza eri già sveglio, dopo aver dormito già più di nove ore. E badate bene che le ore dormite prima della mezzanotte, valgono doppio rispetto a quelle dormite al mattino seguente. Mi spiego meglio: se dormi otto ore dalle una del mattino alle nove, non ti sveglierai mai riposato come se andassi a dormire alle nove e mezza della sera e ti svegliassi al mattino alle cinque e mezza. Chi oggi sceglie di fare ciclismo, ha una marcia in più rispetto ai coetanei <Oggi al giovane corridore non è facile convincerlo ad andare a dormire presto, tutti hanno a disposizione le televisioni, il computer, i telefonini e tante altre distrazioni che li allontanano dallo spirito del corridore. Un giovane corridore per capire cosa sia giusto fare e cosa no, deve sempre pensare che alla pratica ciclistica, tutto ciò che non fa bene, fa male. E’ per questo che dico che i ragazzi che oggi scelgono di fare ciclismo, hanno una marcia in più rispetto ai propri coetanei. Capisco anche che con la crisi che oggi attanaglia l’economia e le famiglie, non è neanche facile per le società sportive riconoscere ai corridori uno stipendio degno di questo nome.
Alfredo Martini con Fiorenzo Magni Anche in questo noi eravamo un po’ più fortunati, anche se anche negli anni trenta non vi erano chissà quante risorse economiche da investire nel ciclismo. Funzionavano a pieno regime le fabbriche d’armi e le aziende farmaceutiche, ma per il resto dovevi dedicarti al lavoro nei campi. La vita era dura, i contadini lavoravano dalle 5.30 del mattino alle nove e mezza di sera, gli operai che dal Mugello andavano a lavorare alle filande di Prato, partivano a piedi o in bicicletta alle 4.30 del mattino per far ritorno a casa la sera alle nove e mezza. Ma nonostante tutto non ci si arrendeva mai, e anche in corsa prima di ritirarti, prima di mollare ci pensavi mille volte, perché se ti arrendevi col ciclismo, poi cosa facevi? Io da dilettante per correre guadagnavo 600 lire al mese, Fiorenzo Magni che già allora era più bravo di me, ne guadagnava mille. I premi alle corse erano 130 lire per il primo, 90 per il secondo, 75 per il terzo, mentre mio papà che lavorava alla Richard Ginori, guadagnava 380 lire al mese. Questo vi fa capire che fare il ciclista era una fortuna e prima di mollare, davamo l’anima. Non fatevi rubare la speranza… Ecco perché dico che ai giovani d’oggi, in mancanza di immediati stimoli economici, bisogna insegnare la speranza, bisogna insegnare a credere profondamente in ciò che fanno e rispettare le regole dello sport. Perché se è vero che da juniores o dilettante ancora si guadagna poco, poi se diventi un corridore professionista vero, allora i guadagni ti sanno ripagare di tutta la fatica fatta. E se così non fosse, è pur sempre vero che il ciclismo ti avrà fatto crescere come uomo e appena inserito nel mondo del lavoro, avrai una marcia in più. E poi avete sentito uno dei primi discorsi del nuovo santo padre, Papa Francesco? Appena insediato in Vaticano si è subito rivolto ai giovani con parole forti, che io condivido pienamente: <ragazzi – ha detto - non fatevi rubare la speranza>! Capite? Non fatevi rubare la speranza: che parole sagge… A casa di Alfredo per l'intervista... l'ultima. Paolo Alberati
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